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Presidenziali in Iran, l'esito non è già scritto

La campagna per l’elezione del prossimo presidente iraniano sta per entrare nel vivo. Il Consiglio dei Guardiani ha approvato sei candidature sulle ottanta presentate, aprendo così la stagione elettorale. Il voto è previsto per il 28 giugno, ma se nessuno dei candidati conquisterà il 50% delle preferenze si andrà al ballottaggio due settimane dopo.

L’elezione in Iran non è tanto importante quanto in altre repubbliche presidenziali, data la natura sui generis della costituzione iraniana che subordina le istituzioni elettive (parlamento e presidenza) a istituzioni solo parzialmente elettive e dominate da chierici, prima fra tutti l’ufficio della guida suprema occupato ora da Ali Khamenei. Questo non vuol dire però che le presidenziali non abbiano importanti implicazioni.

La morte di Raisi e gli equilibri di regime

Com’è noto, questa è un’elezione straordinaria causata dalla morte improvvisa del presidente Ibrahim Raisi in un incidente di elicottero lo scorso maggio. Raisi, seppur privo di carisma, rispondeva adeguatamente alle molteplici esigenze di una leadership iraniana che, dopo il crollo della fazione pragmatica seguito al ritiro americano dall’accordo nucleare del 2015, è interamente nelle mani dei conservatori. Raisi era un punto di equilibrio fra le diverse anime del campo conservatore: lealissimo alla causa della Repubblica islamica (partecipando alla ‘commissione della morte’, responsabile della decisione di giustiziare migliaia di prigionieri politici nel 1988), aveva anche impeccabili credenziali di pietas religiosa, essendo lui stesso un chierico. Allo stesso tempo era ferocemente antiamericano e sostenitore della ‘resistenza’ anti-egemonica in Medio Oriente e nel Golfo perseguita dalle Guardie della Rivoluzione Islamica, la forza paramilitare che controlla la politica di sicurezza regionale dell’Iran. Soprattutto Raisi era debole, e pertanto malleabile e controllabile. Tutto questo spiega perché la leadership iraniana avesse fatto di tutto per pilotarne l’elezione nel 2021. Tanto importante era la continuità che la vittoria di Raisi avrebbe assicurato che molti si erano persuasi che fosse destinato a succedere all’ottuagenario Khamenei come Guida Suprema. Anche se ultimamente la sua stella si era appannata, la sua morte ha comunque scosso gli equilibri interni al regime.

Una corsa a due, o a tre?

In vista delle elezioni, ci si aspettava che i conservatori a capo della Repubblica tentassero di replicare l’‘operazione Raisi’ del 2021, pilotando le elezioni verso un candidato gradito tanto al clero quanto alle Guardie rivoluzionarie. D’altra parte ci si era anche chiesti se la leadership potesse ritenere opportuno aprire invece a una competizione aperta per riguadagnare parte della legittimità perduta dopo la violenta repressione del movimento Donne Vita Libertà dell’autunno 2022. Una rapida occhiata ai candidati, cinque dei quali sono concervatori, sembra indicare che il regime abbia optato per la continuità. L’opinione prevalente è che sarà una corsa a due in campo conservatore, dove al tradizionalista e ideologicamente rigido Saeed Jalili si opporrà il conservatorismo opportunista di Mohammed Bagher Qalibaf, attuale presidente del parlamento e insider di regime per eccellenza (sul quale pesano però pesanti accuse di corruzione).

Diversi commentatori iraniani, anche in campo conservatore, si sono comunque sorpresi che sia passata la candidatura di Masoud Pezeshkian, un parlamentare riformista che ha criticato pubblicamente le repressioni dell’autunno 2022. Pezeshkian potrebbe approfittare della dispersione del voto conservatore e puntare a vincere al ballottaggio, sempre che sia in grado di mobilitare un elettorato stanco e disilluso e organizzare un largo fronte che includa riformisti, moderati e conservatori pragmatici.

Stabilità prima di tutto

Lo scenario più probabile è che, qualunque sia l’esito elettorale, nel breve e medio termine non ci saranno cambiamenti significativi nella politica interna ed estera della Repubblica islamica. In passato i presidenti riformisti sono stati messi in disparte con successo dalle forze conservatrici. La leadership clericale e le Guardie rivoluzionarie vogliono assicurare che la transizione post-Khamenei proceda senza scossoni: l’importante è evitare nuovi disordini sociali e shock esterni. Anche questo spiega la grande attenzione dell’Iran nell’evitare che le continue tensioni con gli Stati Uniti e Israele sfociassero in guerra aperta.

Anche se di impatto limitato sulla politica estera e di sicurezza, l’elezione presidenziale indica gli umori della popolazione (che potrebbe esprimersi anche non andando a votare). Un’elezione a bassa affluenza da cui probabilmente emergerebbe vittorioso il candidato preferito dalla destra religiosa, Jalili, renderebbe la Repubblica islamica ancora più ossificata. Un’affluenza più alta potrebbe favorire Qalibaf, che assicura stabilità ma anche maggiore razionalità e pragmatismo. L’elezione del riformista Pezeshkian aprirebbe un possibile orizzonte di cambiamento, sempre che le forze conservatrici si convincano del vantaggio di cercare una qualche forma di collaborazione con la nuova amministrazione. Potrebbero per esempio allentare un po’ la stretta sui costumi e intensificare l’interlocuzione, per ora indiretta, con gli Stati Uniti.

La scelta del prossimo presidente è destinata ad avere un impatto sul post-Khamenei, che potrebbe aprirsi già sotto questa presidenza. La previsione più ovvia è che il regime punti per continuità ideologica e stabilità pragmatica a insediare Qalibaf, anche se quest’ultimo a differenza di Raisi non è una personalità debole e controllabile. Tuttavia, l’elettorato iraniano ha regalato sorprese in passato, preferendo candidati riformisti o ultra-conservatori a quelli favoriti dalla leadership. Al netto di brogli, che non si possono escludere in un frangente tanto delicato per il regime, l’epilogo di queste elezioni forse non è già scritto.

(Questo post è apparso già sul sito di AffarInternazionali)

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