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La frontiera col Messico, Biden e Trump: tra piani controversi ed errori disastrosi

(di Matteo Muzio e Marco Arvati, Jefferson-Lettere sull'America)

Le elezioni presidenziali di novembre sono ancora lontane, ma si può comunque azzardare una previsione: chiunque diventerà presidente, difficilmente riuscirà a sanare la situazione al confine con il Messico. La frontiera meridionale del Paese è uno dei grattacapi principali per la presidenza Biden.

Biden e Trump: tra piani controversi ed errori disastrosi

Il quadro normativo per gli immigrati irregolari è regolamentato dal cosiddetto Titolo 8, che consente a tutti coloro che entrano negli Stati Uniti di fare domanda di asilo. A marzo 2020, con l’inizio della pandemia di Covid-19, l’allora presidente Trump riportò in vigore un provvedimento piuttosto controverso, risalente al 1944: il Titolo 42. Questo determinava che, in caso di rischio del propagarsi di una malattia infettiva nel territorio statunitense, i migranti irregolari potevano essere rispediti al di là del confine senza attendere l’esito negativo di una regolare domanda di asilo. Il provvedimento – contestato dalle associazioni che si occupano di diritti civili, come l’American Civil Liberties Union – è sopravvissuto alla presidenza del tycoon: infatti, nonostante si pensasse che il neoeletto Biden desse un taglio alle politiche trumpiane sull’immigrazione, appena dopo essersi insediato ha deciso che, per via della situazione ancora gravosa della pandemia, la legge non sarebbe cambiata. Biden ha eliminato il Titolo 42 – responsabile dell’espulsione senza possibilità di richiesta d’asilo di circa 2.8 milioni di migranti – allo scadere dell’emergenza pandemica, a maggio 2023, e intanto la situazione al confine è diventata sempre più critica.

Nel frattempo, Biden ha affidato il dossier immigrazione alla vicepresidente Kamala Harris, che avrebbe dovuto cercare di costruire strategie per mitigare il problema. Harris ha determinato che bisognava concentrarsi sulle cause alla radice del fenomeno e ha quindi cercato di investire nei tre Paesi che, all’inizio della presidenza Biden, erano la principale fonte di emigrazione verso gli Usa: El Salvador, Guatemala e Honduras. L’obiettivo era quello di generare investimenti e migliorare le condizioni di vita nei loro Stati: un piano ambizioso, ma troppo focalizzato sul lungo termine per risolvere la crisi in atto in quel momento. Nonostante 4 miliardi di dollari raccolti da privati, e la promessa da parte di aziende come Nespresso di pagare di più i lavoratori in-loco, il piano si è rivelato fumoso. Harris è stata criticata da destra come una persona poco interessata alle problematiche del confine texano e da sinistra per via di una frase spiacevole espressa in Guatemala (avrebbe detto ai migranti di rimanere nel loro Paese e non tentare di arrivare negli Usa). Harris ha sempre più evitato di parlare pubblicamente di immigrazione e oggi si occupa di raccogliere consensi sulle politiche riproduttive: il dossier immigrazione sembra averlo completamente abbandonato.

Una delle ragioni per cui la vicepresidente si è disinteressata alla questione era la sua scivolosità: troppo difficile risolvere qualcosa su un tema dove i repubblicani sono ritenuti più forti secondo i sondaggi. Questi ultimi, infatti, hanno molto battuto sul tema, accusando la Casa Bianca di aver negletto la cura del problema. In effetti, una volta chiusa l’emergenza Covid e il relativo uso del Titolo 42, Biden si è disinteressato alla questione, sperando che le misure ordinarie bastassero a regolare i flussi, senza l’uso delle più draconiane misure trumpiane. Non è stato così e a farne le spese, in primis, è stato il segretario alla sicurezza nazionale Alejandro Mayorkas. In vista del ritorno alla normalità fu proprio lui a fine 2022 a diffondere un documento molto vago, dove si accenna solo a una possibile riforma del diritto d’asilo. A fine 2023, dopo lo scoppio della guerra tra Israele e Hamas, questa ipotesi si è concretizzata con l’erogazione di 14 miliardi di dollari per rafforzare la sicurezza al confine tramite il finanziamento di nuovi dispositivi di controllo e l’assunzione di nuovi agenti della polizia di frontiera. Sorprendentemente, ma non troppo, i repubblicani non si sono accontentati di questa novità ma hanno chiesto un deciso cambio di passo, iniziando un difficile e complesso negoziato col partito repubblicano durato tre mesi che però non ha portato a nulla. Non perché non ci fosse stato un ascolto attento delle richieste da parte della Casa Bianca.

Un’analisi ha definito quanto raggiunto dal capo del team repubblicano, il senatore dell’Oklahoma James Lankford, “una rapina a mano armata”: l’ottenimento di gran parte delle priorità repubblicane (come la già citata riforma del diritto d’asilo), il ritorno della policy “Remain in Mexico” – che sposta tutto il processo di accettazione dei migranti sul suolo messicano –  e persino l’istituzione di una quota fissa di migranti per ogni varco d’ingresso negli Usa che, una volta sforata, può far scattare la chiusura unilaterale con un decreto esecutivo del presidente fino a che la situazione non si tranquillizzi. Nonostante questi cambiamenti, che in altre epoche avrebbero causato il giubilo del mondo conservatore americano, l’accordo è stato affossato per volere dell’ex presidente Donald Trump con un post sul suo social Truth con motivazioni fumose riassumibili con il suo desiderio di lasciare il problema irrisolto per motivi elettorali.  C’è stato anche un impeachment contro il segretario per la sicurezza nazionale Mayorkas per non aver “fatto rispettare la legge”. Un’iniziativa repubblicana che però si è risolta con un nulla di fatto: il Senato a maggioranza democratica ha ritenuto inammissibili le accuse e ha cestinato gli articoli d’impeachment con un voto a maggioranza semplice.

La situazione in Texas: il regno repubblicano per eccellenza

Un caso particolare è quello del Texas, uno degli Stati più pressati dall’immigrazione irregolare, dato che confina col Messico per circa 2000 km. Lo scorso autunno, il Texas, a solida maggioranza repubblicana, ha approvato una legge, Senate Bill 4, secondo cui le forze dell’ordine statali possono arrestare le persone sospette di entrare illegalmente nel Paese, comminando loro una multa fino a 2000 dollari al primo tentativo e, in caso di reiterazione, il carcere fino a 20 anni in base ai precedenti penali del soggetto. Questa legge draconiana è stata subito contestata dal governo federale, che l’ha bloccata per mezzo dei suoi avvocati, in quanto l’immigrazione e il controllo dei confini dovrebbero essere un tema di rilevanza federale. A questo scopo il governo cita una sentenza della Corte Suprema del 2012, Arizona v. United States, in cui l’Arizona è stata costretta a depotenziare fortemente una legge che aveva l’obiettivo ultimo di creare un reato statale di immigrazione clandestina in conflitto con quello federale. La legge, in questo momento, è in attesa di un verdetto della Corte d’Appello federale che copre il Lone Star State.

La discussione si è amplificata anche internamente al Partito Repubblicano. In Texas da mesi varie anime del partito si combattono, in una lotta che ha molto poco a che fare con l’ideologia e i temi e tanto con la spartizione di posizioni di potere. In questa battaglia, che vede impegnati il governatore Abbott, l’Attorney General Paxton e vari membri delle camere statali, a farne le spese è stato lo Speaker della Camera di Austin, Dade Phelan. Quest’ultimo, prima che venisse approvata la controversa legge del Senato, aveva cercato di far passare un provvedimento alla Camera, House Resolution 20, che doveva istituire un nucleo di “guardiani del confine”, arruolati tra volontari civili. Il Partito Democratico alla Camera ha subito dichiarato ridicola la legge, insinuando che stava creando dei veri e propri “vigilantes” ed è riuscito a evitare che passasse. Il fatto che Phelan non si sia speso troppo per evitare che la legge venisse distrutta ha dato adito ai suoi detrattori all’interno del partito, che vogliono destituirlo dalla carica di Speaker, di asserire che non fosse abbastanza conservatore. Il test sul grado di conservatorismo di una persona è oggi importantissimo per accreditarsi come un repubblicano di peso: più vieni percepito come di destra, più è probabile che il partito ti consegnerà onori e cariche, e ancora di più in uno Stato come il Texas, dove il Partito Repubblicano elegge il governatore ininterrottamente dal 1995 e che si sta spostando sempre più verso un conservatorismo reazionario. Phelan è stato sfidato alle primarie da David Covey, un uomo che non ha mai ricoperto ruoli elettivi a livello politico, ma che ha ricevuto il sostegno di Paxton e Trump nella sua sfida allo Speaker. Nella campagna elettorale per il ballottaggio che si terrà il 28 maggio, Covey sta dipingendo Phelan come una persona moderata per quanto concerne i confini. Il Partito Repubblicano, che sta facendo dei confini il suo principale punto di attacco a Biden, non può accettarlo. È inutile rimarcare che Phelan non è per nulla moderato, non dialoga coi democratici per passare leggi meno draconiane e ha tacitamente sostenuto SB4: come a Washington, anche ad Austin i confini e le politiche attorno a essi sono un’arma per dirimere diatribe politiche più ampie.

Se Trump vince, tornerà il muro al confine

La questione del confine, dunque, rimane un problema lacerante su cui i repubblicani hanno una soluzione pronta all’uso nel mercato politico: finire di costruire il muro inaugurato da Trump nel suo primo mandato e chiudere ogni finanziamento federale alle cosiddette “sanctuary cities”, quei centri urbani governati dai democratici che non rafforzano i controlli sull’immigrazione clandestina. L’idea, per quanto draconiana, non è attuabile al cento per cento non soltanto per l’opposizione strenua dei democratici, ma anche perché risulterebbe impossibile implementare appieno un piano che sigilli totalmente i flussi migratori. D’altro canto, proprio i democratici sono risultati ondivaghi, tra una piattaforma programmatica del 2020 che prometteva l’istituzione di nuovi percorsi di cittadinanza e una gestione del fenomeno fatta di sole restrizioni e deportazioni di massa pur senza gli estremismi trumpiani.

Nessuno dei due partiti appare dunque intenzionato a risolvere il problema in modo definitivo – e del resto è massimamente complesso – ma lo si vuole soltanto utilizzare come strumento di facile propaganda politica emotiva che polarizza le posizioni dei sostenitori dei rispettivi schieramenti, allontanando così qualsiasi soluzione di un potenziale compromesso al ribasso.

(Questo post è apparso già sul sito di AffarInternazionali)

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